Fr. Marcellino

Ieri sera 14/08/2021 ci ha lasciati fr. Marcellino,
è venuto a mancare colui che:

  • silenziosamente lavorava 7 giorni su 7 con 8 ore per giornata per mantenere il contatto tra i fedeli e la chiesa,
  • cercava per te in tutto il convento un confessore, se ne avevi bisogno,
  • ti spiegava dettagliatamente cosa era la messa per la mamma defunta che non avevi mai prenotato,
  • ti accoglieva anche quando non avevi voglia di parlare e ti lasciava respirare tranquillamente in silenzio standoti vicino,
  • quando ti vedeva troppo triste interveniva con la medaglia di Suor Caterina Labouré
  • … ognuno potrebbe aggiungere un’altra riga sul suo silenzioso lavoro e sulla sua vicinanza reale e fisica che ha costantemente regalato a tutti i fedeli di San Giuseppe Sposo.

Raccogliamo in questa pagina alcuni ricordi:

La celebrazione per fr. Marcellino del 17 agosto 2021

I frati hanno dedicato a fra. Marcellino una bellissima funzione funebre con la presenza di 30 frati e 80 parrocchiani (al 17 di agosto!) con una toccante preghiera dei fedeli di cui riportiamo un passo che ce lo fa ricordare in modo particolare:

Ricordati, Padre, dei doni che gli hai dato, in particolare di saper vedere la tua luce nei colori: l’azzurro del cielo e del manto della Vergine Maria, l’oro del sole, l’argento della luna, l’ocra dei calanchi delle sue montagne, il verde dei boschi, e il bianco dei puri dei cuori. Donagli di contemplare la policromia dello splendore del tuo volto.
Noi ti preghiamo.


Liturgia delle esequie

La liturgia delle esequie dedicata a fr. Marcellino, con anche la preghiera dei fedeli integrale (pg.9) su questo collegamento:
Liturgia delle Esequie – fr. Marcellino Botticelli.


La vita di fr. Marcellino

E’ possibile scaricare il .pdf della vita di fr.Marcellino al link sotto riportato
Necrologia fr. Marcellino o leggerla direttamente a seguire:

Fr. MARCELLINO (Gino) BOTTICELLI

Nato a Sant’Agata Feltria (Rn)
14 aprile 1942
Morto a Bologna
14 agosto 2021

La sua infanzia

Alla nascita (14 aprile 1942) a Sant’Agata Feltria (Rn) ebbe il nome di Gino e ha vissuto la sua prima infanzia nell’alto Montefeltro, in località Monte Benedetto, dove si guadagna il pane con il duro lavoro di strappare qualcosa dal terreno argilloso del territorio. Nel gennaio 1947 una grave lutto colpì la sua famiglia: morì la madre. Un’autentica disgrazia per una famiglia modesta come la sua, che riponeva nei figli le sorti del proprio avvenire. Il padre non si risparmiava nella fatica, e lavorava nel suo campo in compagnia del lamento che la vanga emetteva nel farsi largo nella terra. Di giorno alla luce del sole, di notte al chiarore della luna e delle stelle. Si coricava tardi, quando si udiva solo il cupo verso dei gufi, e si alzava alle prime luci dell’alba. Gino dava una mano alla magra economia familiare conducendo al pascolo la sua unica pecora. La univa alle pecore dei suoi coetanei, e per poterla distinguere le aveva messo al collo un collare fatto di stoffa rossa. Così poteva sentirsi libero di aggirarsi nel bosco vicino e di giocare sulla riva del piccolo lago Saraceno. Si industriava a costruire una sorta di zufolo, ricavato da un ramo di nocciolo o di castagno, e quando vi soffiava, quello strumento primitivo, fatto solo di corteccia, emetteva un sibilo simile a una canna d’organo.

Trascorsero alcuni anni e papà Armando cominciò a interrogarsi sull’avvenire suo e del figlio: come poteva continuare a tirare avanti senza alcuna prospettiva? Ci pensò a lungo e alla fine si risolse a risposarsi per ricostruire una famiglia per lui e per il figlio. Fu così. Trovò una donna montanara come lui e che non cedeva alla fatica, e da lei in seguito ebbe altri tre figli, Antonio, Anna e Lazzaro, ai quali Gino, che ormai viveva altrove, rimarrà sempre molto legato.

In seminario

Sul finire dell’autunno del 1952 un incontro venne a scombussolare ogni altro progetto. Il paese di Sant’Agata Feltria era sempre stato generoso di vocazioni per i cappuccini. D’altronde un loro convento sovrastava il paese, e spesso gli addetti a reclutare nuove vocazioni si aggiravano per le piccole borgate di quel territorio alla ricerca di ragazzi disponibili a seguire San Francesco. Così anche alla casa di papà Armando bussò un frate: p. Giancarlo Guidi, pure lui originario del luogo, che fece la sua proposta. Papà Armando, benché perplesso, accettò, convinto che presto sarebbero arrivati nuovi figli, che sperava numerosi.

Il giorno della partenza p. Giancarlo giunse in bicicletta con una cassa da frutta sul portapacchi dietro il sellino. Vi collocò Gino, peraltro molto piccolo, e si avviò per la discesa che portava al paese. I freni della bicicletta erano fuori uso, ma il frate, previdente, aveva assicurato una grossa fascina legata dietro la ruota posteriore, che li seguiva con una nuvola di polvere. A Sant’Agata salirono sulla corriera di linea, che li scaricò a Cesena. Di qui, in treno, proseguirono per Imola, al convento dei Cappuccini, presso il quale vi era il seminario. Il seminario non era ancora del tutto terminato nella sua costruzione e i fratini seminaristi erano stati sistemati nella casa estiva di Bellavalle (Sambuca Pistoiese). Così Gino visse per un certo tempo con i frati del convento, in compagnia di un uomo che fungeva da ortolano, finché ai primi di dicembre giunsero i seminaristi. Gino si trovava in una situazione particolare: per lui era già stato deciso che sarebbe rimasto solo fratello, e la sua presenza in mezzo ai tanti altri ragazzi che “studiavano” per divenire sacerdoti era alquanto singolare. Riuscì comunque a terminare la quinta elementare, dividendo il suo tempo tra lo studio e i piccoli lavori nei servizi al seminario. Partecipava alle varie attività chi vi si svolgevano in particolare alle manifestazioni teatrali, come operette, commedie, e scenette buffe. Qui il piccolo Gino si dimostrò attore insuperabile.

A Cesena nel noviziato

Intanto gli anni passavano, e anche Gino era cresciuto. Nel 1959 fu inviato da Imola a Cesena, dove fu ammesso al noviziato come “frate laico”. Prese anche un nuovo nome, come era in uso a quei tempi. E quale miglior nome per lui, ancora bambino nonostante l’età, se non quello di Marcellino, con evidente ispirazione al protagonista del film allora negli occhi di tutti, frati compresi, “Macellino pane e vino”? Rivestito del saio cappuccino, trascorse l’anno di noviziato sotto la guida del padre Maestro p. Guglielmo Gattiani, ma soprattutto di un frate laico anziano, pieno di tanta sapienza evangelista e francescana, fr. Davide da Castel di Casio. Questo gli avrebbe insegnato a cucinare e a svolgere i piccoli servizi preziosi per la vita di una comunità di frati: curare il pollaio e i maiali, trasformare i grassi di scarto in sapone casalingo e così via. Fu qui nell’anno di noviziato che fr. Marcellino cominciò a manifestare le sue doti artistiche. Con minuscoli scalpelli ricavati da stecche di ombrelli scolpiva piccoli crocifissi e intagliava anche minuscoli teschi da aggiungere alla rozza corona del rosario da appendere al cingolo del saio fratesco. L’anno di prova trascorse gioioso, costellato anche da qualche innocente birichinata, perché per i fratelli laici la disciplina del noviziato era meno severa rispetto a quella dei novizi chierici. Una volta riuscì anche con un confratello non novizio, fr. Masseo Cicchetti, a uscire dal convento di notte, travestito da uomo di campagna con tanto di un cappellaccio in testa, per riuscire ad assistere in un cinema cittadino alla proiezione del film «I dieci comandamenti».

Il lavoro della questua e le sue tentazioni

Emessa la professione temporanea nella solennità dell’Immacolata Concezione di Maria del 1960, fr. Marcellino fu libero di dedicarsi anche a un lavoro tipico del fratelli laici: la questua. Il convento di Cesena possedeva un cavallo e questo docile animale trasportava lui e frate Masseo nella campagna cesenate alla cerca di qualsiasi cosa che potesse essere utile alla fraternità. Quando poi anche nei conventi cominciò ad affermarsi l’uso di mezzi motorizzati, al cavallo si affiancò un “Guzzi Ercolino”, che in poco tempo, per le leggi cittadine di igiene, venne a sostituire del tutto l’animale.

Ben presto fr. Marcellino fu in grado di avventurarsi da solo nella questua nelle campagne dei paesi vicini. Saliva in sella alla sua biciletta e… via. Non senza qualche inconveniente. Come quella volta che, giungendo presso una casa alla cerca di uova, una donna la apostrofò dicendogli: «Che cosa va in giro lei, così giovane e bello, per delle uova? Vada bene in cerca di altro!». Frate Marcellino si fece più rosso del viso rubicondo della donna, e un’ombra di imbarazzo gli passò sul volto: «… Signora, ognuno ha la sua strada. La mia… a me… va bene così!». La donna, intenerita come di fronte a un figlio, lasciò perdere e gli disse: «Senta! Lei rimane qui. E alla questua per lei vi andranno i miei figli». In attesa che i figli inviati dalla madre alla cerca di uova fossero di ritorno, fr. Marcellino si era messo a discorrere con la donna, curiosa di sapere dove fosse nato e chi gli avesse messo in testa di entrare in convento. Fr. Marcellino le parlò delle sue montagne, della vita disagiata che si viveva lassù, della sua entrata in seminario a dieci anni, e come fosse poi divenuto frate e avesse cambiato il nome di battesimo Gino in Marcellino. La donna ascoltava con interesse, e ogni tanto ribadiva il suo vecchio pensiero: «Così piccolo! Adesso è cresciuto… I n zîr ui è tant bèli burdèli!» [«In giro ci sono tante belle ragazze!»]. Il discorso fu interrotto dall’arrivo dei figli, ciascuno con tante uova. Fr. Marcellino si perdeva in ringraziamenti mentre collocava con cura tutto quel ben di Dio nella cassetta assicurata al portapacchi dietro il sellino. Prima di ripartire la donna gli fece un ultimo sorriso malizioso, come per dirgli: «Siamo intesi!…».

A Bologna, a Comacchio e a Lugo

Nel 1963 fu trasferito nell’Infermeria provinciale di Bologna come cuoco e per dare una mano all’amico infermiere fr. Crispino Mescolini. Qui cominciò ad apprendere da autodidatta i primi rudimenti per poter suonare l’organo e accompagnare i canti in chiesa. Se poi vi aggiungeva anche la sua voce baritonale chiara e potente la liturgia ne risultava ancor più decorosa. Con l’arrivo in infermeria di un uomo che fungeva da domestico nel convento di Lugo e che si fece carico della cucina, Marcellino fu trasferito sempre come cuoco nel periferico convento di Comacchio (Fe). Là si trovavano vari frati giovani, anche un po’ originali, sempre pronti a combinarne una delle loro. Il P. Guardiano, che era anche parroco, se ne lamentava dicendo che il Padre Provinciale gli mandava in fraternità i frati più “stornelli” (= originali nel comportamento e poco affidabili). Fr. Marcellino faceva del suo meglio per mettere qualcosa sul piatto in tavola, e doveva industriarsi a cercare qua e là qualcosa oltre lo stretto necessario. Si recava dai pescatori di ritorno dalla pesca notturna, che gli donavano sempre una buona quantità di pesce fresco. Una volta chiese di salire in barca con loro per una battuta di pesca, credendo di cavarsela in poche ore. Rimase invece fuori al mare aperto per ben tre giorni, durante i quali dava una mano ai pescatori nel loro lavoro. Marcellino in cuor suo sapeva che il padre Guardiano non avrebbe presa per niente bene quell’assenza e lo avrebbe potuto accusare di essere un frate fuggitivo: una cosa molto grave secondo le regole fratesche, anche se i pescatori attraverso la radio avevano avvertito i carabinieri di comunicare la cosa ai frati. Quando Marcellino fece ritorno in convento, la comprensibile bufera del padre Guardiano era già sbollita: «Ben tornato, pescatore!», si limitò a dirgli. Una comprensione alquanto interessata, in considerazione della quantità di pesce che il fuggitivo aveva portato con sé.

Tre anni dopo Marcellino si ritrovò ancora come cuoco nel nostro convento di Lugo di Romagna (Ra), dove fungeva da superiore una frate filosofo. Del filosofo aveva sì l’aspetto meditabondo, ma i ragionamenti che egli mulinava nella sua testa si accavallavano uno sopra l’altro, girando in un labirinto senza via d’uscita. Fr. Marcellino da parte sua vagava sempre altrove, immerso in infinite tonalità di colori.

A Bologna prima imbianchino e poi pittore

Nel 1969 fu destinato a Bologna e lì rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. Come lavoro gli fu assegnato, oltre a quello di dare una mano nell’infermeria provinciale, quello di tinteggiatore dei conventi. Fui a Bologna che Marcellino sviluppò pienamente le sue capacità artistiche. Nel silenzio e alla fioca luce della sua stanza dipingeva quadri a olio copiando paesaggi naturalistici di una rivista di arte. Inutile dire che le sue riproduzioni risultavano decisamente migliori delle originali. Peccato che i superiori si siano accorti troppo tardi di queste sue rare qualità… Sapeva leggere i colori del volto di Dio, e li riusciva a trasmettere su tele e su tavole. Chi si fermava ad ammirarli non poteva che vedervi il dito di Dio, che ha steso l’azzurro del cielo e del mare, il verde cangiante dei boschi e l’oro della luce della risurrezione di Gesù.

Quando si recava a tinteggiare altri conventi, l’orario di lavoro non conosceva soste, spesso neppure per mangiare. Si accontentava anche solo di farsi bollire una decina di uova, che avrebbe mangiato tra una pennellata e l’altra. Una volta accettò anche l’impegno di rinfrescare in tutta fretta la volta della tomba sotterranea di un amico, che doveva deporvi la bara di un parente. Quando ricordava questo lavoro, non nascondeva le paure che lo avevano assalito: rimanere a lavorare di notte in quell’ambiente non proprio del tutto rassicurante alla luce di una candela, accompagnata dal sinistro cigolio del cancello di entrata, era stata per lui un’esperienza horror. A Bologna mise su anche uno studiolo, dove custodiva di tutto, in cui non solo dipingeva, ma restaurava soprattutto statue di ogni dimensione, di cui ricostruiva con maestria anche le parti mancanti, ridonando loro il primitivo splendore.

Vi fu un periodo in cui a lui si associò anche un confratello, pure lui artista oltre che vignettista, p. Cesare Giorgi, e i frati coniarono la sigla per la loro piccola società: FICAP (Fraternità Imbianchi CAPpuccini). Con questo nuovo «socio» ha ripreso nella nostra chiesa di Faenza tutte le pitture della volta che si stavano polverizzando e le decorazioni delle pareti. Fu un lavoro lungo, ma che ebbe persino il plauso di uno specialista della soprintendenza delle belle arti.

Le due copie del Crocifisso di San Damiano

Quando l’infermeria provinciale di Bologna subì il lungo lavoro di un totale restauro (1988-1991), Marcellino si sobbarcò il gravoso impegno dell’imbiancatura di tutti gli ambienti. Trovò pure il tempo di dedicarsi a dipingere due copie del crocifisso di San Damiano. La prima, alta poco meno di due metri, per il convento di Cesena (poco prima del 1990), la seconda, alta 235 cm (nel 1993) collocata nell’Aula Magna del convento di Bologna. Due opere veramente impegnative che hanno richiesto da lui notti insonni e tanta pazienza. Forse sono la testimonianza più forte della sua capacità di artista.

Sacrista della chiesa di San Giuseppe

Nel 1999 fu nominato sacristia della nostra chiesa-santuario di san Giuseppe. Così apprese a dividere il suo tempo ad accogliere la gente, ascoltandola e dando consigli che insegnavano tecniche capaci di guarire tutti i possibili mali. Tanti accorrevano a lui, e, a suo dire, ne partivano guariti o quantomeno migliorati. Fu sempre in questo periodo che scoprì, tra una lettura e l’altra, «Il poema dell’Uomo-Dio [L’Evangelo come mi è stato rivelato]», un’opera in dieci che ripercorre tutta la vita di Gesù, scritta da Maria Valtorta. Ne divenne un invincibile sostenitore, pur non dimenticando di tralasciare il suo talento di pittore.

Nell’ultimo anno la sua salute cominciò a mostrare delle crepe, e circa un anno fa ebbe a soffrire di disturbi gastrici. Marcellino non se ne dava pensiero più di tanto, convinto che i suoi mali prima o poi dovessero guarire. Ne uscì solo quando il superiore lo fece ricoverare in ospedale, dove si rimise in discreta salute. Ma ciò che non appariva, il giovedì 12 agosto ultimo scorso, fu di nuovo colpito da questo suo male subdolo. Pure questa volta Marcellino pensava di uscirne, ma non è stato così. Sabato 14 agosto le sue condizioni peggiorarono e il suo ricovero al Pronto Soccorso non fu sufficiente a fargli superare la crisi. Era già iniziata la festa liturgica dell’Assunzione di Maria, e fr. Marcellino ha voluto unirsi alla schiera degli angeli che hanno portato in cielo la Madre di Gesù. Così poco dopo il tramonto del sole, ha lasciato il buio incipiente della terra per entrare nella luce che splende eterna.

fr. Nazzareno Zanni

La liturgia esequiale è stata celebrata nella nostra Chiesa di San Giuseppe in Bologna martedì 17 agosto alle ore 10 e alla concelebrazione hanno partecipato tanti confratelli e numerosa gente. Prima del rito di commiato è stata letta la preghiera degli Artisti. La bara è stata poi accompagna fuori della chiesa con il canto «Andrò a vederla un dì», nel ricordo della sua morte avvenuta dopo la Messa della Vigilia dell’Assunta. Una seconda celebrazione si è svolta nella nostra chiesa di Sant’Agata Feltria (Rn) alle ore 15, a cui erano presenti gli amici e i parenti, in particolare i fratelli Antonio, Anna e Lazzaro. La salma è stata poi accompagnata a piedi al cimitero locale, dove è stata inumata nella terra, secondo il desiderio più volte espresso dal confratello defunto.


A seguire una raccolta di ricordi video e letture

Estratto dal libro: FIORETTI CAPPUCCINI (2018) di p. Nazzareno Zanni

Un bellissimo ricordo di fr. Marcellino all’opera nel restauro,

Clicca sull’immagine a fianco per vedere il video su YouTube

e nella intervista del 24 ottobre 2018 su 12Porte sulla Beata Imelda Lambertini e sul suo rapporto con San Giuseppe,

Clicca sull’immagine a fianco per vedere il video su YouTube

ancora un ricordo nell’articolo scritto da fr. Mazzareno Zanni su fr. Marcellino Botticelli in qualità di pittore,

Clicca sull’immagine a fianco per aprire l’articolo


Concludiamo con una preghiera:

Per fr. Marcellino
perché il Signore lo accolga nella sua casa
come lui ha sempre accolto tutti noi nella sua sacrestia.
Preghiamo